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L’artista concettuale Glenn Ligon utilizza le parole – spesso si tratta di stralci di testo – all’interno della sua produzione artistica. Silvia Colombo, redattrice di Lyktan, lo ha intervistato e ha parlato con lui di James Baldwin, Gertrude Stein, e del ruolo del tempo in rapporto alla lingua e all’arte.
Parole leggibili che diventano illeggibili. Parole che si spezzano, si frantumano, si illuminano e diventano incandescenti. Parole che si rincorrono e si ripetono. Continuando a rileggerle, quelle parole, si entra nel vivo del lavoro di Glenn Ligon, artista afroamericano che vive e lavora a New York. Con una formazione nel campo artistico e del design, Ligon ha iniziato la sua carriera artistica con uno spiccato interesse per l’astrattismo. A partire dalla metà degli anni Ottanta, opera anche attraverso l’aspetto visuale e contenutistico della parola, per portare a galla i temi che gli sono più cari. In primis, l’identità e la cultura afroamericane. Sebbene il suo lavoro si concentri soprattutto sulla riappropriazione pittorica di testi altrui, comprende anche installazioni, opere di light art o più prettamente figurative.
Da quando ho visto la sua opera al Carnegie Museum of Art and Natural History di Pittsburgh, ho sentito la necessità di saperne di più e, soprattutto, di parlarne con il diretto interessato.
Glenn, la tua produzione artistica mi ha per certi versi ricordato la Poesia visiva italiana degli anni Sessanta e Settanta – seppur riferita ad altri tempi e a un’altra cultura. In che modo la tua arte esprime il contesto in cui vivi?
Credo che ciò che mi circonda sia molto importante, visto che il mio lavoro si basa su citazioni – è qualcosa che ho trovato nel mondo, letto, e che, in un secondo momento, ho incorporato nello spazio di un dipinto. Investigo continuamente il contesto culturale in cui mi trovo: molti scrittori che cito provengono dagli Stati Uniti o trattano condizioni che si verificano negli Stati Uniti.
La tua voce si esprime attraverso parole altrui. Come approcci la letteratura, e in che modo fai tue certe citazioni?
Non si tratta di una scelta consapevole. Semplicemente capita che, durante o dopo la lettura, alcuni testi o stralci rimangano con me. Sono proprio quelli che cerco di portare nelle mie opere.
Quanto è determinante il tempo in questo processo? Passare dalla lettura al riutilizzo delle parole, che non sono solo riscritte. Sono raddoppiate, distrutte, assorbite e rielaborate.
Il tempo è sicuramente uno dei livelli di lettura delle mie opere. Ma anche un modo per ripensare la letteratura, specialmente quella afroamericana, che, nel corso dei decenni, va incontro a periodi di fortuna o sfortuna di critica e pubblico. Pensa a James Baldwin, ad esempio: molto famoso negli anni Cinquanta/Sessanta, la sua reputazione ridiscende negli anni Settanta. E oggi è ancora dappertutto. Quello a cui sono davvero interessato è l’insinuarsi delle parole dentro e fuori di me, delle persone, attraverso lo scorrere del tempo: a un tempo “processuale” (di produzione), ma anche, a livello più ampio, a un tempo “culturale”.
Qual è l’opera di cui sei più soddisfatto?
Si tratta della serie degli Strangers, su cui ho lavorato per circa un ventennio e dove James Baldwin viene citato attraverso Stranger in the Village. Nonostante sia un saggio breve, è particolarmente ricco di idee: l’autore riflette sulle condizioni di vita di un afroamericano in un piccolo villaggio degli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Scrive della paura e del fascino che evoca la figura di uno straniero, ma anche della sua relazione con la cultura europea, del colonialismo africano e della lotta per diritti civili negli Stati Uniti. Le parole di Baldwin vengono da me riscritte con stencil, pastelli a olio e polvere di carbone, che conferisce alla superficie un effetto scintillante. È stato molto soddisfacente e interessante realizzare l’opera, ma anche identificarsi con le parole dell’autore.
E incontri qualche difficoltà nel tuo lavoro?
Un problema comune agli artisti che lavorano con i testi è proprio la traduzione. In occasione di una mostra alla Galerie Chantal Crousel di Parigi, ad esempio, volevo tradurre la citazione da Gertrude Stein “negro sunshine”. Tuttavia, il risultato, “soleil nègre”, non era del tutto appropriato, poiché la parola ‘nègre’ in francese ha una connotazione fortemente problematica. Ogni lingua ha diverse risonanze e sfumature. Perciò, alla fine, ho deciso di lasciare le parole nella loro forma originaria.
Silvia Colombo • 2022-10-12 Silvia Colombo è una storica dell'arte, museologa e autrice che attualmente vive a Luleå. Si interessa di musei e ricerche interdisciplinari tra arte, politica e memoria.