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Il Padiglione dei Paesi Nordici alla Biennale Architettura di Venezia presenta un modello di condivisione abitativa. Prendendo spunto da una visita in loco, Silvia Colombo compie una riflessione sugli ideali abitativi degli anni Settanta e sulle utopie architettoniche.
Arrivo, anzi torno a Venezia, dopo anni di assenza, avvolta da un clima caldo umido che solo questa città sa regalare d’estate. Una volta ai Giardini, mi dirigo al Padiglione dei Paesi Nordici, alla Biennale Architettura 2021. Non sono ancora entrata, ma riesco a sbirciare attraverso la grande vetrata della struttura.
Ed ecco che i miei pensieri vanno all’artista Ugo La Pietra – e più in particolare, alla sua affermazione “abitare è essere ovunque a casa propria”, che aveva espresso già sul fare degli anni Settanta. La Pietra, allora, faceva riferimento alla possibilità di estendere lo spazio domestico, sino a inglobare quello pubblico e condiviso: la città.
E, in un certo senso, il Padiglione nordico ai Giardini della Biennale gioca sulla stessa idea di spazio abitato da condividere con la comunità locale, seppur con un taglio e una sensibilità differenti. L’esposizione, infatti, è una delle soluzioni possibili alla domanda che il curatore della Biennale, Hashim Sarkis, rivolge ad architetti e professionisti, così come ai visitatori: How Will We Live Together?
La risposta nordica si palesa attraverso una grande installazione architettonica ed esperienziale, a cura dello studio norvegese Helen & Hard, che mette in scena un mini-sistema coabitativo creato in collaborazione con gli inquilini di Vindmøllebakken, a Stavanger. Ciò che condividiamo. Un modello di cohousing è dunque una struttura in legno cui si accede solo a piedi scalzi – come vuole la tradizione nordica, quando si va a casa di qualcuno. È un concentrato organico, dove natura e architettura diventano una cosa sola, e in cui stanze private e spazi condivisi si compensano.
Si entra, si guarda e si tocca. Si curiosa e si cerca di interpretare la dialettica che alterna lavoro e vita privata. Si aprono porte, si immaginano storie e si assiste alle vicende vissute e documentate dall’artista Anna Ihle.
È un progetto reale e funzionale, che poggia le sue basi su richieste ed esigenze espresse da alcune persone. Ma riflette realmente quello che la maggior parte di noi ha provato, voluto e poi fatto durante la pandemia? È davvero questo il ‘nuovo’ sistema abitativo che vorremmo? Personalmente trovo che, alla luce di tutti gli accadimenti che ci hanno accompagnato dall’inizio del 2020, la costruzione di un modello coabitativo sia piuttosto desueta, per quanto apra a delle possibilità sostenibili.
Poteva forse adattarsi al clima idealista e utopistico degli anni Settanta, che ha spinto architetti visionari a progettare edifici, quartieri e intere città basate su questa idea – si pensi ad Arcosanti in Arizona, un’utopia architettonica costruita su progetto di Paolo Soleri a partire dal 1970. L’impressione, però, è che oggi si vada in tutt’altra direzione. Lo stesso Ugo La Pietra, parla di riscoperta dello spazio domestico privato e di una ‘riconquista’ delle nostre case.
La pandemia ci ha costretto a rivedere le nostre abitudini e, in qualche modo ci ha insegnato a trovare altri luoghi di condivisione, ci ha spinti FUORI. Fuori dalle mura domestiche, ma spesso anche fuori dai centri urbani. Ci ha messo in movimento, dal centro alla periferia, e così in quasi tutto il mondo, alla ricerca di stanze più ampie e flessibili.
Ampie, flessibili. Ma, attenzione, solo nostre. Perché in questo anno e mezzo abbiamo imparato a ridisegnare i confini e a venirci incontro in altri modi, che forse non sono più – o non soltanto – quelli del cohousing. Il Padiglione nordico, perciò, si configura più come una nostalgica Isola di Utopia che come un’avveniristica predizione di ciò che sarà.
Silvia Colombo • 2021-09-07 Silvia Colombo är konsthistoriker, museolog och skribent bosatt i Luleå. Har ett särskilt intresse för tvärvetenskapliga forskning om konst, politik, musei- samt minnesstudier.